03/12/08

Pensieri da una camera d'albergo

Ho cominciato a leggere da poco Le Clézio, premio Nobel per la letteratura di quest’anno. Fino a due mesi fa, sinceramente, per me altro non era che un nome visto di sfuggita sugli scaffali delle librerie. Attualmente, invece, è diventato l’autore di un bel romanzo, Le poisson d’or, e di una duplice biografia, Diego et Frida, che mi sono divorata ieri in treno.
Ho sempre apprezzato il genere biografico. Forse perché difficilmente il resoconto di una vita, che qualcuno ha ritenuto degna di essere raccontata, può annoiare. Qualche elemento di interesse lo si trova sempre. Forse riuscirei a leggere anche un libro di livello mediocre, se parlasse di un personaggio che mi piace (ok, a voler essere proprio sincera, a casa ho un numero decisamente consistente di biografie di Valentino Rossi…).
La parola scritta, in questo senso, ha una forza evocativa maggiore rispetto al linguaggio cinematografico. Accanto al dichiarato c’è sempre una parte di non-detto che, a differenza della passività indotta dalla visione di un film, richiede una partecipazione reale della mente all’azione. Un film-biografia ha spesso l’assurda e intrinseca pretesa di esaurire il discorso. Probabilmente si tratta di un genere troppo legato alla necessità di documentare in maniera completa e inappuntabile, e che quindi lascia meno spazio all’intuizione, priva lo spettatore della possibilità di immedesimarsi, di deformare la storia in base alle esigenze della propria soggettività. Secondo me questa è in assoluto, insieme alla possibilità di gestire il tempo, anziché subirlo, la vera ricchezza della scrittura e il grande limite del cinema.

Detto ciò, questo libro è pieno di spunti di riflessione, anche per me che conosco appena l’opera di entrambi. Tipo questa frase molto bella, sul modo di intendere se stessi. Diego Rivera vede se stesso come “un uomo che realizza la sua funziona biologica producendo dipinti, come un albero produce fiori e frutti e non si lamenta di perdere ciò che ha fatto ogni anno, perché sa che durante la stagione successiva ricomincerà a fiorire e a portare i suoi frutti”.
Sto riflettendo su quale possa essere la mia funzione biologica principale, intesa come dote personale, ammesso che ne abbia una. E, soprattutto, se ci sia in me la certezza della “riproducibilità” di questa dote. E’ una cosa a cui sto pensando da quando ho visto l’ultimo film di Woody Allen, Vicky Cristina Barcelona. Tra le innumerevoli ragioni che mi hanno fatta immedesimare nel personaggio di Scarlett Johansson c’è quella del suo modo di vivere il mondo. Lei è una contemplatrice. Io mi vedo un po’ così (meno gnocca, vabbbene, ma per il resto tale e quale). Osservo le cose, magari arrivo a toccarle e a “scavare” in un tentativo di approfondimento, ma poi mi stanco e cerco altro. Credo che questa sia la mia caratteristica predominante. O almeno un'indubbia costante del mio carattere. Perchè, casualmente, si tratta di una qualità che richiede una periodicità. Che poi sia anche una dote... direi che forse non è poi così fondamentale capirlo.

3 commenti:

Marta Palla ha detto...

Ma da quale camera d'albergo???Dove sei??? Comunque rimani l'incantatrice di serpenti di sempre... gli scombussolamenti linguistici non ti hanno minimamente intaccata! Meraviglioso post.

Marta Palla ha detto...

Sono martita...poi ti spiegherò. Baci

madame ha detto...

ciccina avevo capito che eri tu! Ero a milano, poi ti racconto! ma sei a sofia o a roma? bacio, tvb